La strage del 4 luglio 1944 a Castelnuovo dei Sabbioni

Castelnuovo dei Sabbioni

Castelnuovo dei Sabbioni

Mi chiamo Marisa Guerrini, sono nata a Siena e sono la figlia di Mariano Guerrini e Aurelia Palermo Antinori. Mio padre faceva il sorvegliante nelle miniere, mia madre era la maestra elementare del paese. Vivevamo a Castelnuovo perché; mio padre, spesso disoccupato, aveva trovato lavoro lì;, ed abitavamo in una casa appena sotto la chiesa del paese.
Avevo 13 anni in quella estate del 1944. Ricordo giorni di paura. In paese avevamo tutti paura. Vicino al paese erano arrivati i soldati tedeschi. Nessuno in famiglia sapeva di che divisione si trattasse. Verso la metà; del mese di giugno erano stati catturati due tedeschi che erano arrivati su un automezzo militare per parlare con una famiglia del paese. Li vidi per la strada mentre li portavano via in mezzo ad un piccolo gruppo di partigiani, diretti verso il bosco.
Forse per questo, nei giorni immediatamente successivi, una notte verso il 20 di giugno, l'artiglieria tedesca prese a cannonate Pianfranzese, una fattoria vicina con un piccolo castello, dove noi si sapeva che si erano rifugiati dei partigiani.
La mattina del 4 luglio i tedeschi arrivarono, fermandosi con i camion in fondo al paese, dato che le strade erano troppo ripide e non permettevano di fare manovre. A piedi, incolonnati, cominciarono a risalire strada per strada entrando nelle case e portandosi via tutti gli uomini che riuscivano a trovare.
Verso le otto, la Dina del Neo (nella campagna toscana del Neo vuol dire la moglie di Neo) che veniva a fare le faccende a casa nostra, entrò; in cucina e buttò; la retina della spesa con il pane sul tavolo urlando: scappate che ci sono i tedeschi. 
Fuori dalla porta sentivo altre donne che urlavano: Via, venite via che ci ammazzano tutti!
Scappammo tutti, prendendo le prime cose che trovammo in casa a portata di mano: mio padre, assieme ad altri 10 uomini, prese la strada verso la diga della centrale elettrica che era sotto casa dove c'era in costruzione un rifugio antiaereo: poco più; di un buco scavato in un avvallamento del terreno.
Io, mia madre ed un'altra dozzina di donne, assieme ad alcuni bambini, un neonato e una capra che serviva ad allattarlo, decidemmo di nasconderci dentro cimitero del paese, che se dovevamo morire almeno eravamo in un posto consacrato.
Lungo la strada che portava al cimitero, vicine alla chiesa, incolonnate rasente il muro a destra della strada, vedemmo salire su a piedi una colonna di soldati con i fucili spianati. Dopo poco si sentirono i primi colpi di fucile e di mitragliatrice, che ci parvero venire da lontano.
Come dio volle, ci sistemammo tutte nelle quattro cappelle ai lati del cimitero, e lì; restammo ascoltando il rumore degli aerei americani che passavano sopra di noi, pregando, per una volta, che si decidessero a bombardare. Ma il rumore arrivava, diventava forte e poi si allontanava.
Verso le dieci del mattino dal tetto della cappella dove eravamo nascoste io e mia madre saltò; giù; Franco Maddii, il giovane autista del pullmann che faceva servizio di linea in paese. Lo nascondemmo nell'ossario della cappella, il posto che ci sembrò; più; sicuro.
Da lontano si sentiva sparare, ma il cimitero era distante dal paese e nessuno si rendeva conto di nulla. Le uniche notizie le portavano le donne che passavano sulla strada che portava al bosco e poi su verso i monti dalle parti di Caiano: dicevano che bruciavano anche i paesi di Meleto e di Massa Sabbioni.
Le prime notizie di quello che era veramente successo arrivarono nel pomeriggio: una donna entrò; nel cimitero piangendo e urlando: Li hanno ammazzati tutti. Li hanno bruciati.
All' imbrunire cominciammo a prepararci per la notte, con la neonata, sua madre e la capra dietro l'altare maggiore della cappella e noi intorno.
Verso mezzanotte arrivò; anche mio padre senza una scarpa: scappando l'aveva persa. Assieme ad altri dieci suoi compagni era uscito dal rifugio per vedere cosa stava succedendo, ed era riuscito ad arrivare fino a casa nostra per vedere di prendere un po' di roba da mangiare, risalendo il viottolo che scendeva lungo lo strapiombo fino alla diga. Il tempo di entrare ed afferrare qualcosa. Poi raccontò; di aver sentito arrivare gente da fuori che diceva: "Ecco la casa. Questa la si brucia proprio volentieri".
Parlavano italiano.
Riuscì; a scappare dalla finestra sul retro avvertendo anche i compagni, che nel frattempo erano rimasti nascosti nel sottoscala, e vide la casa che principiava a prender fuoco.
Dalla cucina riuscì; a prendere, prima di darsi, tre polpette di carne ed il carburo per la lampada che nessuno aveva pensato a portare con sé;.
In compenso le polpette, vicino alla stagna, avevano preso di carburo e nessuno riuscì; a toccarle. Se ne andò; dicendoci che andava nel bosco coi partigiani e di non muoverci.
Il giorno successivo passò;, senza fame, senza sete e senza stimoli di nulla. Verso la sera del 5 luglio arrivò; un gruppo di partigiani, fra i quali c'era il Corti. Ci riunirono e portarono in un podere vicino, dicendoci di sistemarci lì;: di mio padre e degli altri uomini del paese non seppe o non volle darci nessuna notizia precisa.
Il sei luglio, la mattina presto, mia madre decise di andare a vedere se in casa c'era rimasto nulla da mangiare. Tornò; terrorizzata: in una piazzetta del paese raccontò; di aver visto un mucchio di cadaveri rattrappiti dal fuoco e anneriti dal fumo, alcuni senza più; braccia o gambe. Aveva girato la testa ed era scappata via. Nella cantina di casa nostra, completamente bruciata, aveva trovato una gallina.
Verso il tocco le donne riuscirono finalmente ad accendere un fuoco per cucinare: proprio quando fu il momento di sminestrare il brodo e i pezzi di carne qualcuno arrivò; dicendoci di lasciare tutto che i tedeschi stavano arrivando. Il tempo di raccattare quattro cenci e vedemmo un cane randagio, fuori del podere, che aveva rovesciato la marmitta e preso in bocca la gallina. Furono altri due giorni di fame. 

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Aggiornato al:
06.02.2020
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349087